Grafomania
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Mi son trovato nel Trovatore
Gennaio 2006
Sono in una schiera di armigeri assetati di fama e di bottino, poco fa eravamo una banda di zingari che iniziava i lavori della giornata. Brandiamo con fiero cipiglio mazze ferrate e terribili asce, mentre il coro canta con le spade sguainate e l'orchestra ci accompagna con una marcia trascinante. Sto parlando, ovviamente, del Trovatore di Giuseppe Verdi andato in scena il primo dell'anno all'auditorio del Palacongressi di Rimini. Mi ci son trovato in mezzo come comparsa quasi per caso, grazie ad un laboratorio teatrale e alla curiosità di vedere da vicino un'opera lirica, che finora non avevo mai apprezzato.
Sotto la guida del regista e assistiti dai tecnici del Teatro sociale di Rovigo abbiamo iniziato a provare assieme alle ragazze del Petit Ensamble, su un palco spoglio che sembrava enorme, accompagnati da un pianoforte e una cantante. Poi si sono aggiunti il coro “Amintore Galli”, i solisti e solo alla fine l'orchestra “Città di Ravenna”. Abbiamo iniziato col cercare di capire la trama leggendo il libretto, cosa che per “Il Trovatore” non è semplice. Dopo la lettura, se della trama ho capito poco, mi è diventato incomprensibile come si possano cantare quelle parole su quella musica. E infatti durante le pause i coristi avevano un gran da fare con “upupa” e “opimi”, qualunque cosa siano. Dopo le prime prove, comunque, mi sono ritrovato a canticchiare i cori più noti come fossero tormentoni estivi. Poi ho cominciato ad apprezzare le arie che cantavano mentre aspettavamo in quinta. Infine mi dispiaceva perdermi le parti che corrispondono ai cambi di costume.
Ad ogni passo cresceva la scenografia, con grandi arcate gotiche che si spostano nei cambi di scena, componendo un quadro allo stesso tempo tetro e magico. La scena è completata da una retroproiezione computerizzata. A quanto pare la lirica ha scoperto il computer, ma non il velcro: nei cambi di costume dobbiamo fare i conti con lacci, fibbie e file di bottoni.
Il melodramma non è solo canto, per funzionare ha bisogno di una regia attenta a gesti, costumi, scene, trucco, luci, attrezzi. È una grande macchina complessa, le cui parti devono combaciare a perfezione. Ma questa perfezione non è solo il frutto di un accurato progetto steso a tavolino. Nasce anche da molti aggiustamenti fatti su un numero di dettagli incredibile. Per dirne solo uno: una cosa che a prima vista si potrebbe definire una martellata su un tubo, è oggetto di osservazioni da parte del direttore d'orchestra, un orchestrale si deve spostare dietro le quinte, si riprova, i macchinisti preparano un sostegno apposta. Alla fine si ottiene l'effetto voluto per un suggestivo rintocco di campane. Tutto deve essere preparato alla perfezione e tutti si segnano tutto: c'è il nostro nome su ogni cosa che ci riguarda, noi annotiamo gli ingressi sui libretti, gli orchestrali arricchiscono la partitura con i le indicazioni del direttore, i macchinisti segnano sulle funi il punto esatto che piazza le arcate al loro posto, sul palco pezzi di nastro individuano la posizione di ogni cosa che vi si debba appoggiare. Per ogni ingresso il direttore di scena ci conta, trasmette le indicazioni del regista, poi corre da una quinta all'altra per spedirci dentro, all'uscita le sarte ci aspettano per i cambi al volo, pronte a raccogliere i panni, l'attrezzista ci porge le armi. Tutta questa efficienza è stata sempre condita da una grande disponibilità ai rapporti umani, nessuno si dà delle arie, tutti cercano di mettere gli altri a proprio agio, le indicazioni del regista e del suo aiuto arrivano sempre con tono pacato. Quando si va in scena però non si scherza e il direttore d'orchestra è sempre pronto a richiamare all'attenzione con imperiosi “Signori!”.
Ora siamo verso la fine dell'opera. Il coro segue le ultime battute su un monitor fra le quinte. Nonostante l'indisposizione del baritono la rappresentazione è andata bene, il tenore ha coronato la sua interpretazione con un do di petto tenuto a lungo. Ultima entrata per trascinare fuori il tenore. Quando lo lasciamo, ci accorgiamo che si appoggia pesantemente alla balaustra per la stanchezza. Usciamo per i saluti.
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