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Specchio antico

Specchio antico

Ora vediamo come in uno specchio antico (San Paolo)

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Se la Chiesa non difende la scuola “di Stato”

Il referendum di Bologna è stato un disastro. Per una contrapposizione ideologica gli asili “paritari” rischiano di non ricevere fondi dal Comune.

Gli asili “paritari” ora ricevono un milione di Euro per assicurare 1736 posti, che al Comune costerebbero sei milioni di Euro.  Oggi come oggi 400 bambini non trovano posto negli asili Comunali, tutti i 1736 bambini delle “paritarie” si riversassero sugli asili comunali, cosa succederebbe?

Il referendum è passato con 59% contrari al finanziamento contro 41% favorevoli. La partecipazione è stata solo del 28,71%, molto bassa. Questo vuol dire anche che i cittadini che hanno votato per l’abolizione sono il 16,5% e per il mantenimento solo l’ 11,5%. L’incidenza dei Cattolici che si dichiarano praticanti (fonte Eurispes) viene stimata intorno al 36% e di quelli che si recano regolarmente a Messa attorno al 30%. Ciò significa che solo uno su tre si è recato alle urne per difendere i finanziamenti agli asili paritari. Perché?

Azzardo una spiegazione. La Scuola materna è quella in cui la frequenza raggiunge le percentuali più alte della popolazione, a Bologna il 21%. Per scuole di ordine superiore scende al di sotto del 10%. Una parte di questi, soprattutto alla superiori, è costituita dai cosiddetti “diplomifici”: scuole che permettono di raggiungere il diploma di maturità senza troppi sforzi. Questi non hanno nulla a che fare con le scuole cattoliche. Quindi è lecito pensare che molti genitori cattolici abbiano a che fare più con i problemi della scuola “statale” piuttosto che della “paritaria”. Questi genitori da anni hanno assistito a un progressivo ed evidente degrado delle istituzioni scolastiche sempre più a corto di fondi. Molti genitori si sono trovati a fare i conti con richieste di denaro da parte delle scuole che contrastano con le affermazioni di gratuità dell’istruzione. Contemporaneamente i Governi che hanno tagliato sulla scuola facevano capire di essere disposti a finanziare in maniera consistente le scuole paritarie . Come dar torto a chi si fatto l’opinione che “tolgono i soldi alle scuole pubbliche per darli alle private”? Nel recente laboratorio nazionale “La Chiesa per la Scuola”  il cardinal Bagnasco nella sua introduzione ha dedicato cinque righe ai problemi dei finanziamenti alla scuola in generale  e tre pagine al diritto alla “libertà di scelta, vale a dire finanziamenti per le paritarie. La sua affermazione “tutte le scuole sono importanti” in questo contesto viene letta come una richiesta di fondi alle paritarie, anche se la stessa frase in un altro caso (Berlusconi si era scagliato contro la scuola di Stato) poteva essere letta come una difesa dell’intero sistema di istruzione. E se la Chiesa continua a difendere il proprio diritto (legittimo) a vedere finanziata la propria scuola, tacendo, o  quasi, sullo stato della scuola “statale” frequentata dalla maggioranza dei cattolici, non finisce col rafforzare l’idea che la scuola paritaria sia “la scuola dei preti” e la scuola “statale” sia la scuola di tutti?

La Chiesa non può più pensare, come molti cattolici purtroppo ancora fanno, che l’unico luogo in cui vale la pena di essere presenti sia la scuola cattolica paritaria. È ora di pensare veramente a cosa significa essere in un sistema di istruzione integrato pubblico-privato, dedicando davvero attenzione a tutti i tipi di scuola.

Lavori Pubblici

Lavori Pubblici

Lavori Pubblici

Cosa dire dei Grillini che prima denunciavano gli inciuci e la spartizione delle poltrone e adesso lamentano il mancato accordo (inciucio?) col PD e temono di essere lasciati fuori dalle presidenze (poltrone?) delle Commissioni ?
Quello che mi viene veramente da dire è che le cose si vedono in maniera diversa da dentro e da fuori. Dico questo in base alle mie poche esperienze di lavoro di rappresentanza, che mi hanno insegnato poche cose, ma importanti. Una di queste è appunto che da dentro le cose sono diverse. Me lo ha insegnato un collega dopo qualche seduta del Consiglio di Istituto dove mi avevano eletto: “Ghinelli, ti abbiamo votato, ma dopo che hai sostenuto in consiglio quella cosa per gli studenti, non ti voteremo più”. D’un colpo è nata la determinazione di ripresentarmi a fine mandato e di fare il possibile per essere rieletto, perché “quella cosa per gli studenti” era proprio quello per cui avevo accettato quell’incarico (gratuito). Se non ci fossi stato io, quella “cosa per gli studenti” (credo si trattasse di prevenzione delle tossicodipendenze) forse non sarebbe passata e ho capito allora in cosa consistesse il lavoro di rappresentanza (che su scala più grande si chiama Politica). Da allora ho avuto maggior rispetto di chi cercava di accaparrarsi una “poltrona”, facendomi per lo meno venire il sospetto che ci fosse dietro una nobile causa o, quantomeno, legittimi interessi di un gruppo di rispettabili cittadini. Intendiamoci, non lo dò per scontato: so benissimo che ci sono persone che agiscono per proprio tornaconto personale, ma lascio aperta la porta alla possibilità che ci sia qualcuno che agisca, anche in politica, con spirito di volontariato. Perché sono convinto, come diceva Luciano Tavazza, che “Il volontario è quello che fa ciò che ritiene giusto fare, anche se lo pagano per farlo”.
Detto questo mi vengono spontanei una domanda e un commento.
La domanda è: ma Beppe Grillo e Luciano Casaleggio sono mai stati eletti in un Consiglio di Istituto o simili?
Il commento è che i Grillini mi sembrano un gruppo di pensionati, quelli che passano le giornate a guardare i cantieri dei Lavori pubblici, non quelli che scrivono sciocchezza sul loro blog.
Di solito stanno fuori dalla recinzione, dicono che è tutto sbagliato e avanzano critiche a come vengono usate le ruspe, dicono che si doveva prima scavare qua e non là e che dentro non sono capaci a fare niente.
Ma ora i pensionati, stufi di questo andazzo, sono entrati nel cantiere, ne hanno occupato una parte e si sono anche impossessati di una ruspa. Ma, siccome non l’hanno mai usata, hanno paura (e a ragione) di farsi male nell’adoperarla. Così la usano come una tribuna, per denunciare ancora una volta le carenze del cantiere e l’incompetenza di chi lo gestisce. Intanto gli operai si arrangiano con quello che gli resta, per portare avanti come possono, e non come vorrebbero, quel povero cantiere che di problemi ne aveva già abbastanza.
Ma i Lavori Pubblici non ne godono.

Proposta per il futuro (se ci sarà)

“È una palla a campanile, Chiarlie Brown! Se la centri sarai un eroe, se la manchi sarai un verme”.

Charles m. Shultz

Proposta per il nuovo simbolo del PD (se ci sarà ancora)

Proposta per il nuovo simbolo del PD (se ci sarà ancora)

Il vero furto? Togliere l’ICI

IL vero furto fu togliere l’ICI. Perché quelli dell’ICI erano soldi dei Comuni e qualcuno li usò per comprare i voti dei cittadini.

Anzi, quei soldi non erano nemmeno dei Comuni, erano dei cittadini. Perché dovevano servire per dare loro servizi e infrastrutture. Che poi non ci furono . O che i cittadini hanno pagato con altre imposte.

Sì, quello fu il vero furto. E adesso ci riprova.

Buon Natale

WordleBuonNataleBuon Natale,
perché è il tunnel
e la speranza
sta nel buio di una una grotta.
Buon Natale,
perché ci sentiam smarrirti
e seguiam
chi per il Mondo
è stoltezza ed è follia.
Buon Natale,
perché ci sentiamo poveri
e ci mettiamo con qualcuno
che ha il suo sonno nella paglia.
Buon Natale,
perché stiam come precari
e pensiamo a una famiglia
rigettata dall’albergo.
Buon Natale,
perché noi vorremmo tutto
e guardiamo a chi ha gioito
per i doni dei pastori.
Buon Natale,
per la sete di Giustizia
che affidiamo a quello che
fu barattato con Barabba.
Buon Natale,
perché il buio fa paura
e ci fa guardare in alto
nella notte una cometa.
Buon Natale.

Tra la IIC e il Paz

I ragazzi della IIA dei Geometri hanno lavorato sodo. Hanno aderito al progetto sull’educazione alla legalità. Hanno presentato il loro lavoro e hanno vinto. Così sono stati premiati dal Ministro Cancellieri in persona. Il giorno dopo, sui giornali locali c’era la loro foto.

Anche i ragazzi del Centro Sociale Paz hanno lavorato, a modo loro. Hanno preparato lo striscione, gli slogan, elaborato un piano. E così, mentre il Ministro Cancellieri parlava, hanno inscenato la loro gazzarra, durante la festa che doveva essere dei ragazzi della IIA. Il giorno dopo per loro c’erano foto e titoloni sui giornali locali, foto e titoli un po’ più piccoli sui giornali nazionali e sui siti Internet. Sono andati in Rai e da Gad Lerner. Forse andranno anche da Santoro.

E se poi saranno di più gli studenti italiani che seguiranno l’esempio dei ragazzi del Paz piuttosto che quello degli alunni della IIC, magari ci chiederemo anche il perché.

Ci dobbiamo sviluppare

Per combattere la povertà ci vuole lo sviluppo, ci dicono.
Ma quanto ci dobbiamo ancora sviluppare?
Quand’ero bambino , negli anni ’50, mia mamma lavava i panni nel mastello e i piatti nell’acquaio. D’estate comprava blocchi di ghiaccio per la ghiacciaia. Più o meno tutti i vicini facevano così. Ora è normale che in famiglia ci siano lavatrice, lavapiatti e il frigorifero col congelatore. Ma c’è ancora chi fa fatica ad avere i panni per cambiarsi e il cibo da mettere nel piatto, figurarsi nel frigo.
Quanto ci dobbiamo ancora sviluppare?
Vivevamo in una casa in affitto, una camera cucina sala e bagno, ci scaldavamo con la stufa economica e alla sera con lo scaldino nel letto. Ricordo ancora il mucchio della legna. Ora è normale avere la casa di proprietà, col termosifone e la caldaia a gas, doppi servizi. E il garage. Ma nelle sere d’inverno c’è qualcuno che si deve preoccupare di cercare i barboni sotto i ponti, per non doverne portare via il cadavere la mattina dopo.
Quanto ci dobbiamo ancora sviluppare?
Quando ci muovevamo, noi bambini salivamo sulla canna della bici del babbo. Poi abbiamo avuto la bicicletta anche noi. Più tardi un Velosolex ereditato dal nonno e una lussuosa Lambretta, usata. Oggi in una famiglia che si rispetti ci sono due automobili e a quattordici anni lo scooter è quasi un diritto. Ma alla Caritas fanno felici un sacco di persone distribuendo scarpe usate.
Quanto ci dobbiamo ancora sviluppare?
Eravamo una famiglia di privilegiati: l’azienda dove lavorava mio padre aveva le Colonie estive. Così d’estate noi bambini potevamo goderci un po’ di aria di montagna, lontano dalla famiglia. Ora in montagna ci si va d’inverno, tutta la famiglia insieme a sciare. Oppure si va al villaggio turistico. O si prende un volo per una capitale europea. Ma per qualcuno il viaggio è una traversata del Mediterraneo su un barcone per sfuggire alla miseria, alla fame, alla guerra.
Quanto ci dobbiamo ancora sviluppare?
Mio padre fece una cosa che nel quartiere lo portò all’avanguardia della tecnologia : comprò un televisore. Certe sere nel tinello si radunavano i vicini per vedere Mike Bongiorno. Vedevamo al Telegiornale Ruggero Orlando che aveva filmato il suo corsivo il giorno prima a New York e lo aveva spedito a Roma con l’aereo. Il telefono arrivò più tardi, su una linea duplex, condivisa con un vicino: se stava telefonando lui, non potevi farlo tu. Adesso i televisori si sono moltiplicati: sala, cucina, camera da letto. E cominciano ad invecchiare. C’è Internet, che ci permette di avere in casa tutto il Mondo e magari vederti faccia a facci con un giapponese o un australiano. E poi puoi essere sempre connesso. Con lo smartphone e con il tablet puoi scattare una foto e farla vedere al Mondo nel tempo che Ruggero Orlando impiegava per dire “Qui New York”. Ma la povertà che è nelle nostre città ancora non la vediamo, chi soffre è sempre invisibile.
Quanto ci dobbiamo ancora sviluppare perché non ci sia più la povertà?

Ma forse è sbagliata la domanda: come ci dobbiamo sviluppare? O cosa dobbiamo sviluppare?
Forse capiremmo meglio.

Non fotografare il fotografo

La vetrina di Romi

La vetrina di Romi

Vietato fotografare. La mostra a Roma su Robert Doisneau non è ancora del tutto in Europa,  continente nel quale nei musei e nelle mostre si può fotografare. Chissà forse pensano che attraverso i riflessi dei vetri e i sensori di una digitale si possano portare a casa le sfumature di grigio (ben più di cinquanta) che formano le foto di Doisneau. Non che mi interessasse riprodurre quei capolavori, volevo solo copiare qualche frase, fissare qualche impressione, così come si possono prendere appunti alla conferenza di un poeta.

Doisneau è stato il poeta della street photography, un genere di fotografia ucciso dalla smania di privacy. Oggi non si può più ritrarre la gente inconsapevole per strada, sorprendere i loro gesti, fissare i loro sguardi. E di gesti e sguardi sono fatte le immagini di Doisneau, soprattutto tanti sguardi che rivelano intenzioni e sentimenti delle persone ritratte. Anche gli sguardi che non guardano come nella celebre foto del bacio all’Hotel de Ville o negli sguardi molto rivelatori della serie che ritrae le persone di fronte a un nudo esposto nella vetrina dell’antiquario Romi. Queste immagini sono state esposte in modo malizioso: sono sulle due facce di una vetrata, in modo che si possano vedere gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi. Tanto che senza divieto verrebbe la tentazione di fotografare gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi. E poiché, poco più in là, una parete è dedicata ai fotografi che immortalano la fontana di Place Concorde a qualcuno potrebbe venire l’idea di fotografare i fotografi che fotografano gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi. E qualcuno per meglio fotografare i fotografi che fotografano i fotografi che fotografano gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi potrebbe anche far cucù da dietro un angolo. Allora sarebbe interessante fotografare i fotografi che fan cucù da dietro un angolo per fotografare i fotografi che fotografano i fotografi che fotografano gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi. Naturalmente il Museo ha i suoi guardiani. E allora si potrebbero fotografare i guardiani che guardano i fotografi che fotografano i fotografi che fan cucù da dietro un angolo per fotografare i fotografi che fotografano i fotografi che fotografano gli sguardi dei romani che guardano gli sguardi dei parigini che guardano il nudo nella vetrina dell’antiquario Romi. Poi… poi forse comincio a capire: meglio stroncare la cosa subito con un divieto di fotografare, che lasciare mano libera a un parossismo difficile da fermare anche per il Trattore Brum.

Due agosto

In una sua poesia Wisława Szymborska descrive molto bene qualcosa di simile a quello che accadde a mio padre il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna.

Il terrorista, lui guarda

La bomba esploderà nel bar alle tredici e venti.
Adesso sono appena le tredici e sedici.
Alcuni faranno in tempo a entrare,
alcuni a uscire.


Il terrorista ha già attraversato la strada.
Questa distanza lo protegge da ogni male,
e poi la vista è come al cinema.


Una donna con il giaccone giallo, lei entra.
Un uomo, con gli occhiali scuri, lui esce.
Ragazzi in jeans, loro parlano.
Le tredici e diciassette e quattro secondi.
Quello più basso è fortunato e sale sulla vespa,
quello più alto invece entra.


Le tredici e diciassette e quaranta secondi.
La ragazza, lei cammina con un nastro verde nei capelli.
Ma quell’autobus all’improvviso la nasconde.
Le tredici e diciotto.
La ragazza non c’è più.
Se è stata così stupida da entrare, oppure no,
si vedrà solo quando li porteranno fuori.


Le tredici e diciannove.
Più nessuno che entri, pare.
Invece esce un grassone calvo.
Sembra che si frughi nelle tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
rientra a cercare i suoi miseri guanti.


Sono le tredici e venti,
il tempo come scorre lentamente.
Deve essere ora.


No, non ancora.
Sì, ora.
La bomba, lei esplode.

Quel giorno mio padre, lui fece come l’uomo con gli occhiali scuri.

Auschwitz

La valigia di Raphaela e Sara Tausik

La valigia di Raphaela e Sara Tausik

“In questa stanza, per rispetto, è vietato fotografare” dice la guida. E io cosa potrei fotografare qui? Come potrei rendere con un’immagine quello che vedo? Non potrei. Con tutta la mia attrezzatura e la mia esperienza. Anche se mi lasciassero solo e libero. Posso solo guardare, e camminare davanti alle vetrine con i capelli dei prigionieri. Una sola vetrata, in più vetrine: una, due, tre… ma quante sono? E quanto è alto il mucchio? Quattro tonnellate, in questa stanza, dice la guida. Una quantità per camionisti. E sono solo quelli che erano rimasti negli ultmi giorni prima della liberazione del campo. Gli altri sono stati spediti alle fabbriche tessili, per farne tessuti. L’orrore si capisce anche con i passi sgomenti che ti porti in fondo alla stanza, poi a farne il giro e a uscire. Fotografare? No, grazie. Sarebbe inutile.

Auschwitz è così: è fatta di quantità e dettagli. Hai visto decine di volte le foto degli isolatori sui fili spinati. Ma non mi ero mai reso conto di quanti fossero i reticolati in questo posto. Le valligie accatastate sono tante, ma che erano Tausik Raphaela e Sara che abitava in Blumauergasse 10/9? Così avevano scritto, con cura, sulla loro valigia per ritrovarla dopo la doccia. Ho visto le baracche altre volte, ma la vastità di Birkenau si percepisce solo camminando, con quel portale così famoso che rimpicciolisce pian piano alle spalle. Ed è il lato minore. Di qua e di là possiamo solo immaginare le file di baracche in legno di cui sono rimasti gli inutili camini. Perchè il carbone serviva per altri usi.