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Specchio antico

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Ora vediamo come in uno specchio antico (San Paolo)

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A casa

Da qualche giorno sono a casa dopo il viaggio in Zambia. Ho molto materiale da sistemare e quindi continuerò a scrivere sulla mia esperienza africana ancora per un po’.

Visto che adesso ho una linea decente penso di aggingere qualche foto ai post africani.

Mercato

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Giorno delle cascate Vittoria. Giorno anche di acquisti. Ovviamente alle cascate c’è un mercatino turistico. In fondo è un po’ la stessa cosa in Viale Vespucci a Rimini.

2010_08_(ago)_23-2Ma qui al minimo cenno di interesse, si viene quasi aggrediti. Facciamo un primo giro, rimandando a dopo gli acquisti e i venditori iniziano a sfoderare le loro tattiche. Uno ci regala pomposamente un ciondolo con il “Nyami Nyami”, l’idolo del fiume, contando che poi ci fermeremo a comprare. Un altro si presenta, dice di chiamarsi Riccardo, ma sospetto che lui, o un suo compare, abbia sentito mia moglie chiamarmi. Più o meno tutti chiedono da dove veniamo e si mostrano molto interessati all’Italia. Uno, incredibilmente, dichiara di chiamarsi Benito. Qualcuno chiede di fare un baratto con una penna biro o con un cappellino marcato Fila.

Al ritorno dalle cascate passiamo dal mercatino. Prima però nascondo nella borsa la mia vistosa Nikon, che mi farebbe passare dalla categoria degli occidentali ricchi a quella degli occidentali molto ricchi. Iniziamo le contrattazioni, che sono una cosa  strana. Si comincia chiedendo “How much?” e ci chiedono “Dollars or Kwacha”. Ormai il Kwacha ci è abbastanza familiare e usiamo quello. Naturalmente il prezzo è un’esagerazione e dobbiamo fare una controfferta. La contrattazione ha aspetti grotteschi. Ci chiedono, poniamo, centomila Kwacha.  Si risponde “Noo! Too much!”, troppo, ovviamente. Questa parte è quasi un rito, può capitare di recitarla anche per un Taxi. Si fa per andarsene o si offre la metà o anche meno. Il venditore ti ferma “listen!”, ti chiede di ascoltarlo e abbassa la sua richiesta. Si può continuare così per un po’, trattando sul prezzo e anche sulla quantità, perché il venditore propone di acquistare più pezzi a una cifra inferiore. In genere si ottiene un prezzo piuttosto lontano da quello di partenza. Se poi ad un certo punto si è veramente decisi ad andarsene senza aver comprato, è la volta che si spunta un prezzo strepitoso.

Poi, finito l’acquisto ci si ferma un attimo a pensare quanto l’abbiamo pagato. Perché, a parte la valutazione della richiesta iniziale, non si sta a pensare quanto valgono le cifre che si propongono. Diventa una specie di gioco. Io lo so che il venditore mi chiede troppo, farsi valere è un dovere, deve sapere che noi occidentali non siamo polli da spennare. Dall’altra parte ho l’impressione che anche per il venditore ci sia una vena di orgoglio, non può lasciare andare un occidentale senza avergli venduto qualcosa, senza avergli portato via almeno una briciola della ricchezza che ostenta con i suoi abiti firmati, il suo orologio di marca e la sua macchina fotografica. Così alla fine il prezzo è quello che ognuno dei due può accettare senza perderci la faccia.

Contrattare in una moneta come i Kwacha, che viene venduta a seimila contro un Euro, ha un vantaggio. Quello di accorgersi solo alla fine che i settantamila Kwacha spuntati per una splendida statuetta di quaranta centimetri di ebano sono in realtà dodici Euro e cinquanta centesimi. Cifra che ci vergogneremmo ad offrire in Italia per lo stesso oggetto.

Alba zambiana

20100815-DSC_0713Ascoltare Enya in un’alba africana non è stato proprio come me l’aspettavo.

Siamo appena partiti col bus che da Ndola porta a Lusaka. Il sole sorge, indossare le cuffiette e far partire “Orinoco flow” mi sembra una buona idea.

Qui è l’ora di punta, quella in cui si è già in strada per guadagnarsi la giornata. Una luce calda e radente cade di taglio su una strada affollata, ottima per le fotografie che non posso scattare. Raggi di sole illuminano ed esaltano file di persone. Donne con grossi carichi sulla testa che troviamo pittoresche quando le vediamo in una rivista di viaggi, uomini che spingono biciclette caricate con troppi sacchi di carbonella,  con un fascio di lunghi pali o con qualsiasi cosa sperino di vendere nella città. Gli alberi fioriti di jakaranda incorniciano camion enormi, cisterne lunghissime. Gente a piedi oppure, i più fortunati, seduti sulle sponde di furgoni gremiti e non si capisce come non ne salti via qualcuno ad ognuna delle grosse buche che incontrano.

No, decisamente le albe africane non sono fatte solo di giraffe che brucano acacie in controluce.

Centri nutrizionali / 2

20100803-DSC_8780Visitiamo altri centri nutrizionali. Piano piano il quadro si chiarisce. Notiamo che a volte la mamma è molto giovane o anziana. Ci dicono che in diversi casi i genitori sono morti e allora è la nonna o la sorella che se ne prende cura.

Ci spiegano che l’ammissione ai centri segue precisi criteri, come il peso in relazione all’età. Durante la pesatura vediamo che il peso più comune è intorno ai sette chili, a volte per bambini di più di un anno di età.

Le operatrici del centro visitano le mamme nelle loro abitazioni e le accompagniamo in un paio di case. In una la mamma ha un piede che le duole e non riesce a camminare, il problema va avanti da tempo e i dottori non riescono a capire perché. In un altro caso la mamma ci riceve in casa. Mi hanno chiesto di documentare il lavoro e quindi chiedo di fotografare l’incontro con l’operatrice. Non ha piacere di fare fotografare la sua casa e non so darle torto: gli ambienti sono di pochi metri quadri, i mobili poveri e consunti. Nel soggiorno ci stiamo a fatica in quattro, la camera contiene appena appena un letto sul quale, probabilmente, dorme rannicchiata. Le chiedo di scegliere lei il luogo ed esce fuori, nel piccolo giardino con qualche alberello, dove la sua casa non si vede.

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Ukubalula

Ukubalula (sbocciare) è una piccola farm che produce ortaggi per la casa e per il mercato. Contemporaneamente ospita una classe definita “special unit” riservata ai ragazzi disabili. In Zambia il concetto di integrazione non esiste e comunque ci dicono che le classi ospitano dai quaranta ai sessanta alunni e quindi l’integrazione sul modello italiano non sarebbe possibile.

Nella farm si coltivano ortaggi e si allevano maiali, oche e capre. I ragazzi hanno una divisa con maglia e calzoni blu e una camicia a quadri. Seguono lezioni di agricoltura e lavorano nei campi. Al loro arrivo fanno colazione e prima di partire si pranza insieme. Prima di pranzo c’è la doccia.

Al venerdì si pulisce l’aula e si lava il pulmino. Durante la nostra visita hanno fatto festa coi “caschi bianchi” (volontari) prima che la scuola chiuda per un mese. Un dolce in più, poi un’accanita partita di pallone, in un campo in lieve discesa con molte buche e un albero nel mezzo. È anche il compleanno di Charity, la cuoca, e i caschi bianchi le portano in regalo un elegante abito con motivi azzurri, che non tarda ad indossare.

Assistiamo a una lezione. La maestra fa un ripasso di agricoltura. Con molto divertimento assistiamo a una lezione sul suolo e sulla sua composizione, cose che abbiamo insegnato per vent’anni. La maestra è veramente brava e sa tenere desta l’attenzione. Ad un certo punto mi trovo coinvolto in una dimostrazione della diversa permeabilità dei suoli: versare contemporaneamente la stessa quantità di acqua in tre recipienti contenenti sabbia, limo e argilla. A due recipienti ci pensano lei e un altro maestro, per il terzo chiamano me.

Anche in pensione posso ancora fare qualcosa per la scuola.

Centro nutrizionale

Uno dei quindici centri nutrizionali della Comunità a Ndola. Oggi, martedì, è il giorno della settimana in cui le donne vengono al centro, nel compound di di Nkwazi. Si ritrovano sotto una tettoia di legno e bambù, dal pavimento in terra battuta, giusta giusta per  farle sedere su tre lati. Sul quarto Ba John ha una panca e un tavolino e conduce la riunione. Ci presenta e spiega chi siamo.

È un colpo d’occhio fantastico. Difficile rendersi conto che si tratta di madri poverissime che non riescono a nutrire il proprio figlio. Sono vestite con le loro colorate chitenga, pulite e stirate, elegantissime. Per prima cosa si pesano i bambini e si misura la circonferenza del braccio, per conoscere lo stato nutrizionale. Intanto riprendo qualche foto. Man mano che mostro i risultati le donne prendono confidenza e sorridono. I bambini sono più diffidenti, uno ha decisamente paura. Però dopo un po’ accetta di farmi ciao con la manina, purché rimanga a distanza.

Poi Ba John tiene una lezioncina sull’importanza dell’allattamento al seno. Intanto inizia la preparazione del pranzo. Fuori dalla casetta alcune donne fanno bollire le uova sode, al centro della tettoia fuma il pentolone dove  si prepara la Nshima, la polenta bianca locale. La lezione comprende anche alcune domande di verifica e un paio di canzoni che le donne cantano in coro. Il tutto dà l’impressione che l’appuntamento col Centro sia una gioiosa ricorrenza settimanale.

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Dopo il coro si mangia, accomodati un po’ come si può. Il bimbo che ha paura di me si lascia invece toccare dalla Margherita e le accarezza lievemente la mano. Poi Margherita gli dice “gnam gnam” mentre mangia e lui, buffissimo, inizia a ripetere.

Ba John ci fa salire sul suo furgone pick-up per andare a Cicetekelo. Siamo in tre, io e Irma dobbiamo salire dietro, nel cassone. È un modo molto comune di viaggiare in Zambia, lo fa anche la polizia. Ma evidentemente non è così comune che lo facciano dei bianchi: attorno a noi bambini e ragazzi ridono e ci indicano col dito, qualcuno ci rincorre.

Strade di Ndola

20100722-DSC_7514Quando usciamo a piedi per la strada cominciamo a vedere le caratteristiche della città. Per prima cosa tanto spazio e tanto silenzio. Non ci sono quasi auto. Le case sono tutte a un piano, con un largo giardino e c’è un ampio spazio fra la strada e i recinti, a volte con una fila di agavi o cespugli. Siamo in un quartiere ricco. Tutte le case hanno un muro di protezione con filo spinato o cocci di bottiglia, qualcuna addirittura col recinto elettrificato. Sui cancelli cartelli indicano che la casa è protetta dalle guardie di un’agenzia.
Le case, comprese quelle della Comunità, hanno giardini splendidi. Del resto il clima aiuta. Nel giardino della Home Family quello che noi chiamiamo un tronchetto della felicità ha superato i sei metri e altrettanto ha fatto il Ficus benjamina dei vicini.

Nel pomeriggio visita alla piccola farm Ukubalula, accompagnati da Vernon, uno dei ragazzi della casa-famiglia che presto andrà all’Università in Sud Africa. I viaggi in pulmino sono interessanti. Si viaggia a sinistra, ma dipende molto anche dalle buche. Le strade sono piene di gente a piedi, pochi in bici. Molti trasportano carichi che a volte sembrano sproporzionati. Mi hanno avvertito di non fotografare gente per la strada:  È capitato che un pulmino sia stato fermato de una folla inferocita in un compound (quartiere di baracche) perché qualcuno fotografava dai posti davanti. Acquattato tra i sedili posteriori dal pulmino scatto comunque.

La folla è un piccolo spettacolo. In città sui marciapiedi si vende di tutto. Ortaggi e commestibili vari, soprattutto. Ma tantissimi vendono ricariche telefoniche e non manca chi ripara biciclette o confeziona vestiti. In un punto passiamo lungo un compound, dove vendono pietre. Frequentissime le donne con carichi sulla testa e bambini portati con una fascia di traverso sulle spalle. Colpisce l’eleganza delle persone, sia che siano donne che indossano le stoffe tipiche oppure uomini e donne con abiti occidentali. Una cosa molto particolare per noi è l’uscita dalle scuole. Qui, tradizione inglese, ogni scuola ha la sua divisa. Così le strade sono invase di bambini e ragazzi elegantissimi, con le loro uniformi blu, verdi o anche gialle.

A un certo punto in mezzo alla strada ci sono bidoni e treppiedi di tronchi. Mi spiegano che è un posto di blocco della Polizia, su quella strada non lontano c’è il Congo, dove c’è guerra. Il nome Congo mi fa effetto. Ricordo i Telegiornali che ascoltavo da piccolo, con le notizie della guerriglia e gli interventi dei Caschi Blu. Sapere che quel posto è a pochi chilometri mi fa un po’ impressione.

Volare in Africa

20100721-DSCN9105Scordatevi le pittoresche immagini dei catorci volanti dei film di avventure africane. L’interno tutto plastica dell’aeroplanino che ci porta da Lusaka a Ndola ripete l’ambiente dei grandi. In una fusoliera larga forse due metri ci sono solo tre file di sedili, molto simili a quelli dei Boeing, senza schermo, ma con gli stessi cartelli di avvertenze. L’hostess, che potrebbe essere la mamma di quelle dell’Ethiopian Airlines, sorride professionalmente e ci istruisce sulle uscite di sicurezza. Durante il volo, quarantacinque lunghi minuti, serve anche uno snack. Non c’è che dire, una compagnia dagli standard elevati, nel suo piccolo.

In viaggio

Nell’immaginario collettivo viaggiare in roulotte è una cosa avventurosa da poveri, mentre viaggiare in aereo è una tranquilla cosa da ricchi. Eppure…

Per diversi anni abbiamo girato per l’Europa in roulotte e quest’anno, invece, siamo partiti in aereo per andare a trovare gli amici in Zambia. Prima della partenza abbiamo dovuto fare i conti con le limitazioni per il bagaglio che ci hanno costretto a considerare peso e dimensioni di quasi ogni cosa. Per l’attrezzatura fotografica impensabile portare il cavalletto o il 500mm. Ho finito col valutare persino il peso e l’utilità di una testa a snodo per usare il flash in macro o di una minuscola livella per mettere in piano la macchina fotografica. E comunque il portatile è dovuto rimanere a casa.

Poi il viaggio aereo. Tutto bene fino ad Addis Ababa dove la stagione è quella dei monsoni e siamo atterrati in pieno acquazzone tropicale che ha fatto cancellare tutti i decolli. Dopo una lunga attesa ripartiamo, con due ore di ritardo. Atterriamo a Lusaka quando ormai l’aereo per Ndola era partito da tempo, impreparati ad affrontare l’imprevisto. Per nostra fortuna avevamo incontrato un ragazzo zambiano che parla italiano, che ci ha fatto trovare un solerte funzionario in grado di assisterci nelle varie cose da fare. Intanto avevamo avvertito gli amici di Ndola col cellulare di un poliziotto, dato che i nostri non potevano collegarsi alla rete zambiana. Poi ci hanno aiutati a trovare un altro aereo, a cambiare gli Euro in dollari e in Kwacha zambiani e finalmente siamo partiti, su un piccolo turboelica bimotore da 18 posti il cui rumore ricordava quello di una falciatrice. Dopo un lunghissimo volo notturno di quarantacinque minuti siamo arrivati all’aeroporto di Ndola, che dopo il nostro arrivo ha tirato giù la serranda.

Non so quando ripeterò l’esperienza di un lungo viaggio aereo.

So però che quando tornerò a viaggiare con la roulotte mi godrò molto di più la possibilità, ad esempio, di portarmi dietro una pila di libri alta una spanna perché così posso scegliere. O di avere con me una bicicletta o un barbecue o la mia pallina antistress. E mi sentirò molto, molto ricco.

It’s time for Africa!

Domani parto per lo Zambia.  Vado a trovare Tina, da quasi trent’anni missionaria nella casa-famiglia di Ndola.  Starò laggiù un mese e durante questo tempo, appena potrò, vi terrò informati.